RAMBO

Sono una specie di Rambo.
Capitano al comando di una jeep di militari che corre a una velocità pazzesca attraverso una steppa piena di cumuli, tanto che saltella a tratti, quasi ritmicamente, come uno stambecco fra le asperità di una foresta di montagna.
C’è una mitragliatrice montata sul roll-bar della jeep, e i due soldati che siedono ai posti anteriori mi urlano qualcosa dal basso verso la mia postazione di capitano addetto al mitra.
Non capisco nulla di quel che dicono, non tanto per il rumore del vento o del motore, ma piuttosto perché le voci arrivano sorde alle mie orecchie, come urlate attraverso uno spesso vetro antiproiettile.
Il messaggio tuttavia è chiaro: bisogna sparare.
Aziono il grilletto, escono proiettili a raffica, il nastro del caricatore scorre veloce attraverso il fucile a ripetizione, le vibrazioni mi attraversano le braccia, il corpo.
All’orizzonte, davanti a noi, un unico sconfinato, imponente, lontanissimo edificio.
Lì c’è il nemico, ne sono sicuro. Soldati, a tutto gas verso la caserma del nemico!

Mi rendo conto che ci vorrà parecchio per raggiungerlo, ma tutto un tratto il tempo scorre come con il fast-forward del videoregistratore: l’istante dopo la jeep è parcheggiata lì di traverso davanti all’edificio, e noi tre soldati ci accingiamo a cercare il sistema di aprire un portone alto come un edificio di 3 piani, largo come una nave da crociera.
Di nuovo fast forward, giusto quella manciata di metri di pellicola per non capire bene come diavolo siamo riusciti ad entrare, ma in fondo che importa? Siamo dentro.
E siamo su un pianerottolo; strano edificio questo: dietro l’ingresso c’è un pianerottolo, nient’altro che qualche metro quadro di spazio, come introduzione a una scalinata larga come un autotreno che scende per decine di scalini, tanto in profondità e tanto poco illuminata che non se ne scorge la fine.

Cominciamo a scendere, non c’è scelta.
Con le armi in mano, pronti a fare fuoco, scendiamo più veloce possibile.
Sento dietro di me i rumori dei passi dei miei due soldati che mi segue, e con soddisfazione penso al loro coraggio.
Fast-forward per alcune decine di scalini… e i passi non si sentono più, come quando cerchi i secondi più belli di una canzone nel lettore, ma ti sbagli, vai troppo avanti e raggiungi i 2 secondi di muto tra una canzone e l’altra.
Ora che ci sono solo io a fare rumore, gli altri suoni mi giungono all’orecchio con più precisione: riesco a distinguere una “musica fuori campo”, come fosse diffusa nell’ambiente da altoparlanti per stazioni ferroviarie.
Scendendo il volume aumenta; la riconosco: sono i primi 5 secondi di “Yebo!” degli ‘Art Of Noise’.
Nella mia discesa senza fine ricolma di solitudine, senza la certezza che esista una fine a questa scalinata, e con la luce che lascia sempre più spazio all’oscurità, immagino nella mia mente…anzi io sono intimamente sicuro che questo urlo di 5 secondi sia emesso dalle voci indemoniate di un gruppo di suore sataniche.
Un brivido di puro terrore mi attraversa la schiena.
L’istante dopo il brivido mi chiedo “eppure, se ci fosse una fine a questa discesa, dovrebbe vedersi una luce proveniente da qualche altro pianerottolo, che per forza deve essere illuminato.
I miei pensieri diventano realtà: scorgo una luce laggiù in fondo, a una distanza che rispetto al pianerottolo da cui sono partito stimo in qualche centinaio di metri.

Un fast forward mi dà l’aiuto necessario per raggiungere l’ultimo scalino, dopodiché le suole dei miei scarponi da militare poggiano su un’area di 2-3 metri quadri di…terra. È un pianerottolo in normalissima terra, dal quale parte una stradina di campagna di quelle con la spina dorsale nel mezzo fatta di erbetta fresca e tenace.
Inutile girarsi per controllare: alle mie spalle non c’è più nessun edificio, nessuna scala, nessuna porta.
Non c’è nulla, non c’è nemmeno la campagna che continua verde oltre le mie spalle: il mondo comincia da quel pianerottolo di terra calpestata.
La stradina che ha origine davanti ai miei piedi procede in piano per 10-20 metri al massimo dopodiché si alza bruscamente e sterza a gomito verso destra, perdendosi dietro una casa di paese.
Vedo un’altra casa, sempre sulla destra della stradina, le cui mura giungono fin qui vicino a me; e tra le due c’è una specie di cancello alto in ferro battuto.
L’urlo delle suore sataniche continua, a ripetizione, ed ora sono fortissimi il volume con cui urlano e lo spavento che provo.
Dopo qualche metro arrivo di fronte al cancello.
Noto una piccola strada asfaltata di paese che di insinua tra le due casette.
L’urlo proviene da lì in fondo al vicolo: non c’è bisogno che qualcuno mi inviti ad entrare.
Il vicolo è cortissimo, e sbuca in quella che è evidentemente la piazzetta del paese.
Non c’è segno né rumore di esseri umani in giro: sembra un paese fantasma.
C’è solo un piccolo furgoncino dentro il quale vedo una quantità indecifrabile di cani, tutti rinchiusi in quello spazio angusto.
Erano loro che urlavano in quel modo orribile!
Non era un urlo satanico, era un richiamo disperato verso la libertà!
Sulla mia destra la piazzetta è chiusa da una siepe, oltre la quale corre la curva di una normale strada extraurbana.
Passa un camion con una scritta sopra…non vedo il nome dell’azienda, ma mi sorprende la scritta enorme che ne descrive il contenuto: segatura.
È un camion ricolmo di segatura. Strano tipo di carico…
I cani sono disperati, affamati, assetati, spaventati, sofferenti.
Povere bestiole, chi può mai avervi fatto questo? Correte via, ora siete liberi. Correte per le campagne, statemi bene.
Questo paese non ha più bisogno di me, torno sui miei passi, e attraverso il vicolo raggiungo la stradina di campagna.
È giunto il momento di scoprire dove sono finiti gli abitanti; sicuramente seguendo la stradina di campagna saprò che fine hanno fatto.
Esco dal cancello, assecondo la salita con movimenti sinuosi ma inarrestabili delle mie gambe, proseguirò verso destra guidato dalla spina dorsale della strada, … ecco, sono alla curva, la mia ricerca continua ora verso destra, la seconda casina ruota nel mio campo visivo attorno alla coda dell’occhio.
Uno sguardo ancora al paese, che ora vedo da una prospettiva leggermente rialzata, poi porgo attenzione a ciò che mi attende in fondo al cammino.
Non è necessario guardare in lontananza: a pochi metri da me avanza un prete, con la sua tunica nera, il colletto bianco, i capelli neri, e un vangelo in mano, aperto.
Sta camminando verso di me, e mentre avanza legge sommessamente, le sue parole giungono indecifrabili, come il riverbero di calderone che bolle.
Mormora. Versi, preghiere, parabole.
“Salve!” il mio saluto arresta i suoi passi e le sue preghiere.
Con tranquillità e senza sorpresa, alza la testa e ricambia il saluto con un cenno del capo.
“Ha visto per caso dove sono finiti gli abitanti del paese? Ho trovato solo dei cani rinchiusi…”
Mentre mi accingo a riferire l’accaduto lui comincia darmi immediatamente tutte le risposte che cercavo, e lo fa con una sola frase, ripetuta daccapo a piedi, in maniera continua, maniacale, folle, maligna:
“Erano bambini cattivi, erano tutti bambini cattivi…cattivi…”

In un istante capisco; tutto è chiaro, cristallino, immobile e feroce come l’acqua sotto un lago ghiacciato: è stato lui a rinchiudere i cani, è stato lui ad uccidere tutti gli abitanti del paese, e li ha trasformati in segatura!
Un camion intero di segatura, i conti tornano!
Bastardo!

Mentre io capisco tutto, lui continua a vaneggiare “Erano bambini cattivi, ahah! Sì! Cattivi…!” e mentre parla comincia a trasmutare: l’intera testa si ingrossa e diventa più …quadrata, le spalle si allargano, i capelli si ridispongono, con una linea che li divide perfettamente in due, e li lascia sbuffare lateralmente come l’erba percorsa da una ruota di bicicletta.
Ha davvero un aspetto molto, molto, molto simile all’incredibile Hulk.

Con tutta la forza di un Rambo, mi avvento su di lui e comincio a picchiarlo, cerco di strangolarlo, ma lui è parecchio forte, e la lotta si protrae più a lungo dei pochi secondi che avevo messo in conto.
La fatica si trasmette al mio respiro, e l’affanno sta per sopraffarmi, ma no, non posso cedere ora che so tutto, devo vendicare tutti quei poveri abitanti che sono stati uccisi e trasformati in segatura.
Raccolgo forze da una riserva che non sapevo di avere; il suo punto debole è la faccia, è lì che devo colpire.
Con un urlo disumano gli salto nuovamente addosso, diretto verso il suo volto, e riesco ad atterrarlo.
Stavolta non perdo tempo: mentre lui si dibatte gli appoggio l’avambraccio sulla testa, proprio sopra al naso, e con il gomito puntato sulla sua fronte comincio a spingere, a spingere, a spingere …crepa, brutto mostro!
La sua faccia comincia a cedere: si piega come un pallone di gomma, e il mio avambraccio sprofonda giù piano piano, facendo uscire lateralmente due “lobi”, e malgrado non fuoriesca sangue, né si vedano ferite abominevoli, la vista di quel viso così orribilmente deformato che fuoriesce da una parte e dall’altra del mio avambraccio, mi disgusta violentemente, tanto che ho l’istinto di fare un salto all’indietro per lo schifo.
I muscoli del mio corpo intero si contraggono, pronti a scattare come la corda di un arco già teso al massimo, nell’istante prima che la freccia scocchi.
Lo scatto all’indietro è talmente violento che riuscirò a balzare in piedi a qualche metro di distanza da lui; allora sarò pronto all’attacco, in posizione di difesa.
Mentre volo verso la difesa tutto ruota, i colori si mischiano… ma fortunatamente tutto fila liscio: eccomi, sono qui, a qualche metro…dalla porta della mia camera, seduto sul letto, col respiro affannato, grondante di sudore.