Un sacco di gente è seduta davanti a me; tutti tacciono, s’annoiano nell’attesa o scambiano qualche bisbiglio con chi sta al loro fianco.
Io presiedo questa conferenza e dovrò introdurre una ricercatrice bionda vestita di bianco, che attende alla mia destra che tutto cominci.
Non vedo le facce della gente seduta, ma solo tante gambe accavallate e braccia che reggono volantini informativi.
È l’ora: devo parlare io. Il pubblico ammutolisce sospeso su 10 lunghi secondi, prima che io trovi le parole giuste.
In quei 10 secondi riesco ad attraversare le varie fasi di un attacco di panico, prima in crescendo poi in decrescendo.
Prendo il microfono, lo avvicino, parlo.
La prima cosa che riesco a dire è “Blà!”
Alcuni si portano una mano al mento con fare interessato, in segno di sostegno per l’attenzione che la mente sta prestando.
Continuo un po’ esitante: “B-bla…blà.”
Silenzio.
Non ci sono cattive reazioni, è il momento di farsi coraggio.
“Blà blà blà blà blà. blà blà!”
Continuo a dire ‘blà!’ per un paio di minuti.
Io stesso stupisco scoprendomi chiudere il discorso con un deciso “MMM!”.
Silenzio, facce pensose.
Tutto a un tratto un signore alza un dito, e col dito anche l’intero braccio, anzi si alza in piedi e mi chiede con un’aria da manager “Manamanà?”.
Io, compiaciuto oltre le mie aspettative, sorrido ricolmo di soddisfazione ma non ho capito un fico secco di quel che ho detto e di quel che mi è stato chiesto.
Ma che cavolo ci faccio qui?!?
Buio.
Buffet.
Non ci sono voci nitide, solo un continuo brusio di fondo.
Anche le persone che mi stanno vicino sembrano amalgamare la propria voce all’uniformità dei rumori presenti nella stanza.
Un piattino in mano, un pezzetto di formaggio da buffet fra le dita, un bicchierino plastico di vino stillato da un recipiente di cartone.
Scosto lo sguardo, cerco in lontananza dentro uno spazio vuoto che si è formato fra il viavai di persone, vedo la tenda pallida che copre la finestra sull’altro lato della stanza.
Lo spazio vuoto diventa un tunnel che i presenti hanno formato con le braccia; vedo una signora attraente, nera di carnagione, mora coi capelli lisci e gli occhi scuri, che avanza verso di me, dentro il tunnel di braccia e uomini, guardandomi fisso negli occhi, sfoggiando un sorriso bianco oltre qualsiasi invidia.
Buio.
Vedo me stesso – sempre vestito con lo stesso gessato blu usato alla conferenza e al buffet – in piedi su un promontorio che dà a strapiombo sul mare.
Mi vedo in prospettiva dal basso come se i miei occhi fossero su una caletta lì sotto.
Buio.
Sono su un deltaplano e sto correndo per concludere la fase di decollo; tra pochi metri mi lancerò nel vuoto ponendo la mia fiducia sulle correnti ascensionali che il vento genera su questo versante della montagna.
Ecco, ora!
Decollo e comincio a volare con una facilità ed una leggerezza quasi innaturali.
La sensazione di vuoto sotto di me è allo stesso tempo divertentissima e terribile.
Qualche centinaio di metri più sotto c’è un’area adibita all’atterraggio.
La manovra è un po’ difficile, ci vuole un po’ di impegno ma l’atterraggio tutto sommato va alla grande.
Qualcuno mi aiuta a “sganciarmi” dal deltaplano e mi chiede “com’è andata?”.
Bla…Benissimo.
Puntano qui |
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